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Atti singoli

 
 
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Gli atti singoli, a cui va ad unirsi un piccolo numero di fascicoli, costituiscono il nucleo più antico dell’archivio comunale di Iglesias, disponendosi lungo un segmento della linea del tempo compreso tra il 1355 e il 1760. Un gruppo documentario che si presenta tuttavia eterogeneo sotto diversi aspetti:

  • supporto di scrittura: alcuni atti sono in pergamena altri in carta.
  • caratteristiche diplomatistiche: la maggior parte dei documenti è rappresentato da esemplari originali, ma talvolta si conserva di essi solo una copia. In qualche caso accanto all’originale si dispone anche della copia (autentica o semplice).
  • contenuto: i documenti che ci sono stati tramandati non sono riconducibili a un singolo argomento, ma in essi si conserva la memoria di diversi avvenimenti accaduti nel corso di quattro secoli. Di alcuni fatti è possibile seguire lo sviluppo nel tempo, in altri casi invece emergono solo frammenti di vicende di cui non si conoscono né antecedenti né seguiti, affidati come sono alla testimonianza di singoli documenti. Dalla lettura di essi si evince chiaramente che la trasmissione di questi documenti attraverso i secoli non è legata a fatti puramente casuali, ma l’importanza del loro contenuto è sicuramente capace di spiegare perché questi documenti e non altri, che pure dovevano esistere, si sono conservati sino ai nostri giorni. In molti di essi sono testimoniati i fatti più significativi della vita della città, come quelli legati al riconoscimento della sua autonomia e del suo status giuridico ed economico, ovvero le condizioni che stanno alla base della sua esistenza.

Argomenti:

Il contrastato passaggio alla dominazione iberica (1355-1421)
I più antichi documenti conservati nell’archivio del comune di Iglesias (docc. n. 2-23) sono la diretta testimonianza dei rapporti tra la città e i nuovi dominatori catalano-aragonesi, nella difficile fase del consolidamento del proprio potere nell’isola. Sullo sfondo, la vicenda della guerra tra i catalano-aragonesi e il giudicato di Arborea nel corso della quale Iglesias si trovò, alternativamente, ora sotto il dominio iberico, ora sotto il dominio dell’autorità autoctona.

La prima fase del dominio catalano-aragonese. I sovrani aragonesi, fin dalla conquistata realizzata dall’Infante Alfonso nel 1324, inaugurarono verso Iglesias una politica di rispetto delle tradizioni politico-istituzionali della città. Una condizione che mirava a garantire al sovrano il sostegno delle popolazioni locali ma che di fatto si scontrava con il sistema feudale e il regime mercantilistico introdotto nell’isola dagli stessi dominatori iberici. Dopo la conquista della città, l’Infante Alfonso accordò alla popolazione di Iglesias il riconoscimento dei preesistenti ordinamenti, dello statuto e dei privilegi goduti fin dal tempo dei pisani. Di ciò si conserva in questo archivio testimonianza indiretta in un documento del 1358 (doc. n. 14). Successivamente, lo stesso Infante Alfonso nel 1327 approvò il breve emendato dalla commissione dei breviaiuoli quanto bastava ad adattarlo alle mutate condizioni politiche: una disposizione che sarà confermata anche dal successore Pietro IV (doc. n. 8).

Le fasi arborensi. Trascorsi i primi vent’anni di dominio iberico, emerse in tutta l’isola un forte il malcontento verso i metodi di governo. Il dissenso si andò a saldare con l’ostilità in senso antiaragonese maturata nel giudicato d’Arborea. Anche Iglesias, o meglio una parte della popolazione, alla fine del 1353 partecipò alla ribellione dei sardi nei confronti degli aragonesi, spianando la strada all’ingresso in città dell’esercito di Mariano IV di Arborea. In quell’occasione la città venne incendiata e ridotta in rovina. Pochi mesi dopo Iglesias tornò sotto l’autorità del re aragonese, il quale si astenne da atteggiamenti punitivi, preferendo piuttosto adottare provvedimenti tesi a favorire la riconciliazione con la popolazione, la ricostruzione della città e il suo rilancio economico (docc. nn. 2-6). Nonostante ciò, appena un decennio dopo, Iglesias si ribellò nuovamente agli aragonesi, e ora una più larga fascia di popolazione scelse di schierarsi a fianco della causa degli Arborea, diventata ormai la causa sarda. Per oltre un ventennio, fatto salvo un breve ritorno alla sovranità aragonese, Iglesias si trovò sotto la giurisdizione del giudicato d’Arborea, durante la quale conservò probabilmente la sua peculiare condizione giuridica, ma conobbe una fase di decadenza economica, segnata in particolare dallo stallo dell’attività estrattiva e della produzione della zecca.

Il ritorno sotto la sovranità iberica. Nel 1409 la situazione si ribaltò a favore dei catalano-aragonesi e Martino I re di Sicilia, dopo la battaglia decisiva combattuta contro i sardi a Sanluri, stipulò con Iglesias un accordo per il ritorno della città sotto la sovranità iberica: ancora una volta Iglesias otteneva dai catalano-aragonesi la conferma della condizione giuridica di comune libero, con il suo statuto, i suoi organi rappresentativi e suoi privilegi.

Un documento in siciliano. Il testo dell’accordo tra Iglesias e Martino I, è inserto in un provvedimento di conferma emanato da Alfonso V nel 1421 (doc. n. 23) che reca la particolarità di essere scritto in siciliano: il prestigio della tradizione della cancelleria che fu di Federico II e dei poeti della illustre poesia siciliana (1198-1250) resisteva nei secoli, anche dopo il passaggio della Sicilia sotto il dominio iberico.

L’archivio della città. A causa dell’incendio della prima ribellione contro gli aragonesi, andarono persi gran parte dei documenti conservati nell’archivio comunale. La cancelleria regia provvide in seguito a integrare la lacuna documentaria, a garanzia dei diritti e dei titoli acquisiti dalla città, inviando una copia dei documenti perduti o emanando nuovi provvedimenti che rinnovavano o confermavano il contenuto degli stessi (cfr. i documenti nn. 7-19 ). L’archivio registra invece una lacuna documentaria irreversibile per il periodo che coincide quasi perfettamente con la seconda ribellione e l’ingresso della città nell’orbita politica del giudicato d’Arborea (1365-1420). Marco Tangheroni spiega questo fatto con una sorta di damnatio memorie: la deliberata distruzione delle carte che conservavano la testimonianza di un periodo carico di una forte valenza simbolica - quindi potenzialmente destabilizzante per un potere non ancora perfettamente consolidato - poteva garantire ai vincitori stranieri un più efficace controllo sulla popolazione locale.

L'infeudazione di Iglesias (1436-1450)
Circa una ventina di documenti, le cui date si inscrivono in un periodo compreso tra il 1436 e il 1456, raccontano la vicenda dell’infeudazione di Iglesias (docc. n. 26, 27, 28, 28bis, 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 36bis, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 44, 51, 51bis, 52). Iglesias, sotto la dominazione catalano-aragonese, fin dalla conquista (1324), aveva sempre goduto dello status di città libera, sottoposta all’amministrazione diretta della Corona. Ma con l’avvio del XIV secolo, nel difficile equilibrio tra le forze feudali e il sovrano, fu sacrificata sull’altare della mutata condizione politica ed economica e, quindi, nel 1436 ceduta in feudo alla potente famiglia dei Carroç.

Gli antecedenti. Da tempo Iglesias subiva la pressione dei feudi circostanti che stavano progressivamente allargando ai centri vicini la propria sfera d’influenza e a vantaggio dei quali si era vista strappare ampie porzioni di territorio. Nel 1432, i rappresentanti della comunità di Iglesias lamentarono, presso il re Alfonso V, la situazione di difficoltà in cui si trovavano i suoi abitanti, ai quali i feudatari impedivano di pascolare il bestiame in territori dove da tempo immemorabile esercitavano questo diritto. Inoltre, per scongiurare la minaccia di un possibile inglobamento nell’amministrazione feudale, chiesero e temporaneamente ottennero la conferma degli antichi privilegi e delle franchigie (doc. n. 25).

La vendita per 5.000 fiorini d’oro. Nonostante le rassicurazioni ottenute dalla città, qualche anno dopo nel 1436, il sovrano Alfonso V diede mandato al vicerè Giacomo de Besora di vendere la città di Iglesias ad Antonio de Sena (doc. n. 26), un esponente del ceto dirigente locale con il quale intratteneva importanti rapporti di natura finanziaria. La scelta fu avversata però da una delle più potenti famiglie feudali dell’epoca: i Carroç. Questi rivendicavano su Iglesias una sorta di diritto di prelazione in forza del fatto che un esponente della famiglia, Jaime Carroç, deteneva da anni l’ufficio della capitania e castellania di Iglesias. Al di là di questa rivendicazione i Carroç vantavano importanti servizi resi a favore della monarchia aragonese nei momenti più difficili della tenuta dell’isola. Nonostante l’iniziale intenzione del sovrano di rimanere fermo nella sua posizione, in Sardegna il vicerè rescisse il contratto con Antonio de Sena (doc. n. 26) e la città, insieme al castello e al territorio fu venduta ai Carroç (doc. n. 27, 28), rappresentati da Elenonora di Quirra, per la somma di 5.000 fiorini d’oro d’Aragona, riservandosi la Corona il diritto di riscatto. Le motivazioni dichiarate per la vendita della città da parte del re furono sostanzialmente le seguenti: la necessità di denaro per il mantenimento della flotta nell’interesse generale dei regni della Corona d’Aragona; la revocabilità della vendita; il minor danno che la cessione di Iglesias, piuttosto che un’altra città, comportava per il patrimonio regio.

La resistenza. La città non si piegò di buon grado a questa decisione e, negli anni che seguirono, diversi episodi testimoniano l’esistenza di un forte conflitto con il feudatario. Si ha notizia di tentativi di opposizione all’imposizione di nuovi tributi, nei confronti dei quali il re mostrò un atteggiamento ondivago: ora respingendo le istanze degli iglesienti, ora accogliendole (doc. n. 29). In un caso la protesa dei cittadini assunse un indubbio valore simbolico: il castello di Salvaterra, allora sotto il controllo del potere baronale, venne sequestrato e riconsegnato al re (doc. n. 30). E non mancarono tentativi di sabotaggio all’operato della nuova amministrazione realizzati attraverso il furto di atti dell’archivio comunale (doc. n. 33).

Il riscatto. Dopo un tentativo di composizione tra le parti (doc. n. 32), nel 1450 il re decretò il riscatto della città di Iglesias, dietro il versamento di 7.750 lire delle quali 2.000 da pagare entro un mese e la restante somma in sette rate annuali, a cui si aggiungeva l’interesse del 10% (docc. n. 35, 37, 38, 40). E’ attestato il regolare pagamento delle rate per almeno 5 anni (doc. n. 39), a cui però non corrispose da parte del feudatario altrettanta solerzia nella certificazione degli avvenuti pagamenti (doc. n. 43). Il riscatto comportò il reintegro della città nel patrimonio regio e la conferma degli antichi privilegi. Nell’interpretazione di Marco Tangheroni, la gestione di questa vicenda è una grande prova del carattere degli iglesienti e insieme la testimonianza della non indifferente forza economica ancora posseduta dalla città.

La lotta con l'arcivescovo di Cagliari
Un discreto numero di atti provenienti dalla curia pontificia (lettere apostoliche, bolle papali, brevi pontifici) riflette la vicenda dell'annosa lite tra la diocesi di Iglesias e l'arcivescovo di Cagliari, nel corso della quale i cittadini di Iglesias incorsero anche nella scomunica papale (docc. n. 82, 86, 87, 91-94, 106-107).

Il contesto. La città di Iglesias nel basso medioevo faceva parte della diocesi suffraganea di Sulci, la cui sede ufficiale era Tratalias, per quanto, a partire dal Trecento, fosse invalsa la prassi per i vescovi di risiedere a Iglesias. Durante il periodo spagnolo, con bolla di Giulio II del 1503, venne attuata la riforma delle diocesi sarde, richiesta dal re Ferdinando I, che portò a una riduzione delle diocesi: da 18 a 7. In questo contesto Iglesias divenne sede ufficiale della diocesi di Sulci ma, a dispetto del riconoscimento ufficiale della sua preminenza, si determinò una condizione di subordinazione a Cagliari. Nel 1514, infatti, la diocesi di Iglesias si trovò unita di fatto alla diocesi di Cagliari per effetto dell'unione personale che si realizzò quando il vescovo di Iglesias, Giovanni Pilares, divenne anche arcivescovo di Cagliari. Si trattava di una condizione temporanea per la quale non risulta alcun provvedimento pontificio di avvallo, che tuttavia si protrasse sino alla seconda metà del Settecento. In forza di quest’unione, la diocesi di Iglesias continuò a mantenere un proprio capitolo che durante il periodo di vacanza della sede cagliaritana eleggeva un proprio vicario capitolare, dotato della facoltà di amministrarne i beni.

La lotta per l’autonomia. Gli iglesienti, ancora una volta, non si piegarono ad accettare una situazione che ritenevano ingiusta e non solo respinsero soluzioni annessionistiche, ma negli anni che seguirono la riforma tentarono di riconquistarsi l'autonomia. Intorno al 1580, a motivazione della scarsa assistenza prestata alla diocesi da parte dell'arcivescovo di Cagliari, Gaspare Vincenzo Novella, i canonici del capitolo e la città si rifiutarono di versare le decime. La posizione della diocesi di Iglesias fu sostenuta, in un primo tempo, anche dal sovrano spagnolo, il quale si adoperò presso la Santa Sede per una soluzione di compromesso che avrebbe portato all’autonomia della diocesi di Iglesias, previo accorpamento alla diocesi di Ales, dopo la morte dell'arcivescovo Novella. Dal canto suo la diocesi di Iglesias si impegnava al regolare pagamento delle decime per tutto il tempo in cui il presule sarebbe rimasto in vita. Il successore di Novella, Francesco del Vall, non tenne conto dell'accordo e la diocesi di Iglesias continuò la sua battaglia per l'autonomia con ripetute richieste ai tribunali apostolici cui seguirono varie sentenze, sino a quella definitiva del 1654, emessa dalla Sacra Rota, che pose fine alla questione stabilendo l'unione perpetua della diocesi di Iglesias a quella di Cagliari. E negli anni seguenti venne meno, nei fatti, anche il sostegno da parte della Corona.

Iglesias nel Parlamento sardo
L’archivio comunale di Iglesias conserva diverse testimonianze (docc. n. 24; n. 88, n. 96; n. 101; n. 109) sul ruolo svolto dalla città nei Parlamenti sardi, a partire da quello tenutosi nel 1421, considerato il primo vero parlamento, dopo quello convocato da Pietro IV nel 1355, in considerazione del rigoroso rispetto delle procedure formali tipiche di questo istituto: spedizione delle lettere di convocazione, nomina dei trattatori per l’importo del donativo, presentazione dei capitoli di corte da sottoporre all’approvazione del sovrano.

Il Parlamento sardo. L’istituto del Parlamento fu introdotto in Sardegna dai catalano-aragonesi sul modello di quelli esistenti nei regni iberici che componevano la Corona d’Aragona, in particolare di quello catalano. Il Parlamento si configurava come un’assemblea rappresentativa degli ordini privilegiati (nobiltà, clero, città regie) e si basava su un principio contrattualistico per il quale il re per ottenere il donativo, l’imposta che serviva alle necessità del regno, doveva venire incontro alle richieste di ciascuno degli ordini rappresentati in Parlamento (capitoli di corte). Le richieste presentate al sovrano da parte della città vertevano sostanzialmente su due ordini di problemi: i conflitti di competenza con l’amministrazione regia; contrasti con la feudalità legati ai limiti delle rispettive giurisdizioni da cui dipendeva lo sviluppo dei traffici e dei commerci.

Chi era il sindaco? Il sindaco o procuratore rappresentava la città in seno al Braccio reale. I sindaci erano eletti dal consiglio cittadino che conferiva ad essi, attraverso specifici documenti ufficiali redatti da un notaio (carte di procura, mandati), i poteri necessari per rappresentare politicamente e giuridicamente la città in seno al Parlamento. Inizialmente le città tendevano a conferire al sindaco una delega limitata, probabilmente per evitare che in sede parlamentare l’influenza del re potesse interferire a scapito della difesa degli interessi della città. Per contrastare questa prassi Ferdinando II impose alle città di inviare al Parlamento rappresentanti forniti di poteri legittimi e sufficienti per la trattazione di tutte le questioni in campo, sulle quali dovevano essere peraltro ben istruiti. Non sempre la città di Iglesias riuscì a inviare al Parlamento un proprio rappresentante diretto e in questi casi la città veniva rappresentata da funzionari regi o dai procuratori delle città maggiori. Nel Parlamento apertosi nel 1481 Iglesias fu rappresentata dal maestro razionale, mentre nel Parlamento del 1500 risulta rappresentata da Giovanni Nicola Aymerich, consigliere della città di Cagliari. Non è difficile immaginare che in questi casi gli interessi della città di Iglesias soccombevano a vantaggio di quelli dei poteri forti (Corona, città maggiori) nel conflitto che inevitabilmente si realizzava convogliando istanze diverse e spesso opposte nella stessa persona. Recentemente è stato messo in evidenza un altro limite della rappresentanza cittadina in Parlamento, legata al carattere oligarchico del consiglio, che fa del sindaco la cinghia di trasmissione degli interessi particolari delle classi sociali che controllavano le cariche civiche, piuttosto che il rappresentante degli interessi generali della comunità.

Ciò emerge anche dal profilo, ricostruito da Marco Tangheroni, del personaggio che nel 1421 rappresentò la città in Parlamento (doc. n. 24): Visconte Gessa. Si trattava di un mercante che precedentemente aveva rivestito altre cariche pubbliche (maiore del porto ovvero camerlengo e più tardi capitano della città, armentario e ufficiale regio di alcune ville del Sulcis). La partecipazione al Parlamento come sindaco della città, gli procurò, in seguito, numerosi vantaggi anche sul piano personale: la sua carriera dal quel momento registrò un aumento del volume d’affari e l’investitura a feudatario.

 

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