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01 - Comune di Iglesias

 
 
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Il soggetto produttore

Il comune antico

1. Le origini della città
Iglesias nasce nella seconda metà del XIII secolo come comune signorile, in capo al quale vi era la famiglia pisana dei Donoratico. La città come forma organizzativa della vita sociale era estranea alla tradizione giudicale della Sardegna, incardinata sul sistema della villa. L’origine delle città sarde è piuttosto da ricondurre alla progressiva penetrazione in Sardegna dei pisani e dei genovesi, culminata nel XIII secolo con la caduta dei giudicati, i regni autoctoni che avevano retto l’isola fin dagli ultimi secoli dell’alto medioevo. In generale le città nascono intorno ai castelli, fortificazioni militari con funzioni difensive, costruiti dagli esponenti delle famiglie signorili che avevano attuato la politica espansionistica delle città marinare (Genova e Pisa), per difendere la porzione di territorio da essi controllata. Quando poi intorno ai castelli iniziano a sorgere centri di mercato, borghi produttivi, ville, centri vitali e questi vengono dotati di proprie legislazioni e organismi consiliari quelli che in origine erano in origine presidi militari si trasformano in vere e proprie città. Iglesias, conosciuta nei documenti medievali come Villa di Chiesa, fu fondata da Ugolino di Donoratico, cittadino pisano e in Sardegna Signore di una porzione di territorio denominato “sesta parte del regno di Cagliari“, esito della ulteriore divisione subita dal dominio territoriale della famiglia Donoratico - ottenuto dopo la fine dell’antico giudicato di Cagliari (1257) - tra i due rami della famiglia rappresentati da Ugolino e Gherardo. Il territorio controllato da Ugolino inglobava i centri di Iglesias, Domusnovas e Musei e coincideva con la regione del Sigerro. A Ugolino è attribuito il merito di aver favorito lo sviluppo di Iglesias attraverso una politica di attrazione di capitali e di popolazione finalizzata allo sfruttamento delle risorse economiche del territorio: le miniere d’argento e di piombo. Da piccolo villaggio non murato, quale era ancora nel 1250, Iglesias divenne nel breve volgere di qualche decennio un importante centro fortificato protetto dal castello di Salvaterra, condizione che risultò favorevole all’espansione delle attività produttive. Per accompagnare lo sviluppo economico dell’insediamento i Donoratico assecondarono l’instaurarsi di un regime politico caratterizzato da una certa autonomia che si sostanziava in un ordinamento municipale fondato su uno statuto e retto da un podestà e da un consiglio, organismo attraverso il quale gli abitanti partecipavano alla vita pubblica. Il dominio dei Donoratico, così come gli altri domini signorili dell’isola, erano legati al Comune pisano da un rapporto feudale che prevedeva il versamento di un censo annuo, all’origine del quale vi era un accordo tra il Comune e i protagonisti della politica interna ed esterna di Pisa, finalizzato a sostenere l’iniziativa militare anti-genovese.

Dalla dominazione indiretta alla dominazione diretta. Le vicende politiche del comune di Pisa, dell’ultimo scorcio del XIII secolo vedono il declino della Signoria dei Donoratico. Un decisivo episodio della lotta tra Genova e Pisa per il controllo dei traffici nel mediterraneo (battaglia navale della Meloria, 1284) travolge Ugolino dapprima accusato di tradimento e quindi confiscato dei propri beni: Iglesias, possedimento sardo della famiglia, passa sotto l’amministrazione diretta della città di Pisa.

Cosa cambia sotto Pisa? Il podestà scelto e nominato dai Signori di Pisa, viene sostituito da due capitani o rettori eletti dal Consiglio degli anziani del Comune. Il codice statutario vigente sotto i Donoratico della Gherardesca, denominato Costituto, viene rivisto in funzione di un suo adeguamento alla mutata realtà del territorio, dapprima nel 1303 da Messer Baciameo poi, un anno dopo, da una commissione di brevaiuoli, secondo le norme stabilite da Pisa per la revisione dei codici statutari di matrice pisana. Sia sotto il dominio della Signoria dei Donoratico che sotto quello del comune di Pisa, il codice statutario e gli ordinamenti erano stati calati dall’alto con l’intento evidente di limitare l’autonomia di Iglesias in funzione degli interessi delle potenze dominanti: condizione che faceva di Iglesias un comune pazionato.

2. Le istituzioni comunali
L’ordinamento comunale definito dal Breve si reggeva intorno a una pluralità di organismi individuali e collegiali che si spartivano le diverse competenze per assolvere alle funzioni politiche, giudiziarie ed economiche del governo della città. Con l’uscita dall’orbita italiana, in seguito alla conquista della città realizzata dall’infante Alfonso nel 1324, l’impianto istituzionale non mutò il suo assetto esteriore ma molte cariche subirono un processo di catalanizzazione in funzione di un più efficace controllo della città e del suo territorio da parte dei nuovi dominatori. Da quel momento, nell’area giurisdizionale di Iglesias e del suo territorio, si incrociarono le competenze di diversi organi i quali, pur con le cautele legate alla difficoltà di applicare schemi classificatori a un mondo come quello medievale dove competenze e ambiti di applicazione sono distribuiti trasversalmente tra i diversi strati del potere, possono essere distinti in due categorie: organi della municipalità e organi dell’amministrazione regia.

Gli organismi che nel tempo hanno rappresentato l’autonomia municipale sono i seguenti:

Il podestà. Era l’organo individuale posto a capo del governo della città dai Signori Donoratico (sino al 1284). Il comune di Pisa sostituì il podestà con due rettori eletti a Pisa e inviati dalla città madre a governare il comune di Iglesias. La carica durava un anno con decorrenza dal 1° ottobre.

Il capitano. Con l’arrivo dei catalano-aragonesi la figura istituzionale incaricata di svolgere le funzioni già espletate dal podestà prima e dai rettori poi, diventa il capitano. Nel Breve è costantemente indicato come “capitano o rectore”, ma si tratta a tutti gli effetti di un ufficiale regio, nominato e stipendiato dal sovrano, con funzione di interfaccia tra il governo locale e l’amministrazione regia. Secondo quanto stabilito dal Breve aveva funzioni in campo politico e militare insieme a importanti competenze giudiziarie che si estendevano sino alla possibilità di infliggere la pena di morte (podestà di coltello, I 4). Era assistito in questo specifico compito da un giudice, esperto di diritto: le sentenze emesse erano inappellabili. Entro una settimana dall’insediamento il capitano o rettore era tenuto a leggere e spiegare al popolo, riunito in assemblea pubblica, il Breve della città. Erano esclusi dall’esercizio di questa funzione gli eretici, gli usurai, gli eretici (paterini), i falliti, coloro che erano stati banditi dal comune o erano verso quest’ultimo debitori. Il capitano o rettore tenuto a conservare nel possesso della città le fortezze, presentando a garanzia di questo impegno idonei fideiussori. All’atto dell’insediamento nella carica il capitano o rettore era tenuto a giurare, davanti al consiglio l’osservanza del Breve di Villa di Chiesa e il rispetto dei privilegi della città. A garanzia della sua autonomia e imparzialità, era vietato al capitano o rettore l’esercizio di attività commerciali nel territorio di Iglesias, sul quale esercitava la sua giurisdizione, e parallelamente non gli era permesso ricevere doni dalla popolazione. La presenza del capitano era d’obbligo per la legalità delle sedute del consiglio ma non poteva entrare in merito alle decisioni che venivano votate in quel consesso. La durata della carica di capitano era stabilita dal Re: nella prassi si registrano nomine con durata a tempo determinato e altre a vita. Inoltre in vari momenti la carica di capitano fu associata a quella di castellano (doc. n. 74).

Il consiglio. E’ l’organo collegiale che ha rappresentato nei secoli la municipalità cittadina, tutelando gli interessi degli abitanti della villa e provvedendo all’amministrazione del bene pubblico. Per tutto il periodo della dominazione pisana e nei secoli del dominio catalano-aragonese, il consiglio era formato da dodici membri. Durava in carica tre mesi e non poteva riunirsi senza l’autorizzazione e la presenza del podestà, dei rettori poi, e quindi del capitano, ma queste figure non potevano intervenire nelle decisioni del Consiglio. La nomina dei consiglieri avveniva per chiamata di almeno un terzo del consiglio uscente. All’atto della nomina i consiglieri si impegnavano, con atto di giuramento, a osservare le prescrizioni del Breve e ad agire nell’interesse della comunità. Tra i primi atti del consiglio vi era la nomina degli ufficiali della città (guardiano delle porte, doganiere, carceriere, clavario, ecc.). Le decisioni riguardanti questioni di natura finanziaria che comportavano per la città un impegno superiore ai 20 soldi, dovevano essere adottate a maggioranza, con il sistema dei gettoni bianchi o neri deposti in un’urna. Al di sopra dei cento soldi le decisioni venivano prese dal consiglio raddoppiato, cioè integrato da ulteriori 12 consiglieri che venivano scelti dai membri ordinari del consiglio in ragione di tre per ogni rione cittadino (Santa Chiara, di Mezzo, di Fontana, di Castello). Stessa procedura si seguiva per tutte le decisioni ritenute di particolare importanza per la città. Il sistema di nomina del consiglio vietava la presenza nell’ambito della stessa assemblea di membri con relazioni di parentela, né i consiglieri uscenti potevano chiamare a far parte del nuovo consiglio parenti o affini. Questi accorgimenti miravano garantire il pluralismo della rappresentanza ma di fatto il sistema della cooptazione mostrava i suoi limiti proprio in quanto non impediva il formarsi di fazioni e gruppi di potere locale, spesso in lotta fra loro, una condizione che in ultima analisi indeboliva l’autonomia della città creando gravi squilibri tra i poteri che si confrontavano a livello locale.

La riforma del 1508: cambia il sistema di elezione dei consiglieri. Alla fine del XV secolo, Ferdinando II - il primo re del regno di Spagna nato dall’unificazione del regno catalano-aragonese con quello di Castiglia - con l’intento di mettere rimedio ad analoghe situazioni che si verificavano in tutto il regno e insieme di risanare i numerosi bilanci municipali in dissesto, mette a punto una riforma valida per tutti i più importanti municipi della Corona d’Aragona, che viene applicata a Iglesias con disposizione regia del 30 maggio 1508. La novità consisteva nella sostituzione del vecchio sistema elettivo con un sistema di sorteggio dei cittadini scelti tra cinque categorie di eleggibili che corrispondevano alle classi sociali di appartenenza, la cui candidatura doveva preventivamente ottenere l’approvazione del Re. Nelle intenzioni il Re mirava con questa riforma a contenere le lotte di potere e le degenerazioni delle oligarchie e garantire la pluralità sociale della comunità ma di fatto, nella misura in cui si controllava la formazione della lista degli eleggibili, escludendo tutte le persone sgradite, si realizzava una forte intromissione dell’autorità sovrana nell’esercizio del potere locale. Tuttavia va detto che le innegabili ingerenze sovrane si basavano su regole precise che ne limitavano gli abusi.

La cerimonia per la nomina del consiglio. E’ nota la modalità con cui avveniva la nomina dei consigli eletti dopo la riforma fernandina: una solenne e scenografica cerimonia in cui si distinguono tre momenti fondamentali: insaccolazione; estrazione a sorte; nomina del nuovo consiglio. Nella prima fase, i nomi delle persone eleggibili, scritte in striscioline di pergamena, venivano racchiusi in palline di cera e quindi distribuite in cinque diversi sacchetti di tela verde, corrispondenti ai gradi in cui erano gerarchicamente suddivisi i consiglieri. In due ulteriori sacchetti venivano inseriti in nomi delle persone che potevano ricoprire le cariche minori. I sacchetti opportunamente sigillati venivano quindi riposti in una speciale cassa munita di tre diverse serrature e le chiavi affidate rispettivamente al consigliere in capo, al consigliere secondo e al consigliere quarto. La cassa contenente i nomi veniva conservata all’interno della più grande cassa dell’archivio della città e lì restava sino al 30 novembre, giorno di S. Andrea. Alla data stabilita si passava all’apertura della cassa contenente i nomi dei candidati e le palline di cera riposte nei sacchetti venivano rovesciate in un bacile d’acqua dal quale un bambino estraeva, una per volta, le palline. Infine, i nomi estratti a sorte venivano letti ad alta voce e contestualmente un notaio redigeva il verbale che sanciva la designazione dei nuovi consiglieri. Il tutto si svolgeva pubblicamente davanti all’assemblea dei cittadini riunita nel palazzo civico, alla presenza del capitano e del consiglio civico uscente. Le modalità per l’elezione del consiglio, prescritte dal re Alfonso V con documento del 30 marzo 1508 (n. 57), insieme alla data di insediamento del consiglio di Iglesias stabilita per il 30 novembre di ogni anno, sono rimaste in vigore per ben 263 anni, sino alla riforma sabauda del 1771.

Compiti del consiglio. Il consiglio di Iglesias, composto da 5 membri, oltre all’ordinaria amministrazione, era chiamato a decidere in merito alle spese per lo stipendio dei consiglieri e degli ufficiali comunali, alle spese per la cura degli orfani e per l’assistenza ai poveri, ai contributi per le feste religiose e per il culto, alle sovvenzioni al Collegio dei Gesuiti.

La riforma del 1771: cambia la composizione del consiglio. Sotto i Savoia, nella cui orbita la Sardegna si trovava già dal 1720, si ha una svolta radicale nell’ordinamento amministrativo delle città. Il sistema di nomina dei consiglieri con l’estrazione a sorte tra cinque categorie di eleggibili viene sostituito dalla nomina mediante la scelta fra tre diverse classi di cittadini. Il corpo di eleggibili era così composto: nella prima erano inquadrati i nobili, i cavalieri, i laureati; nella seconda i cittadini che vivevano con i propri mezzi; nella terza i mercanti, e i cittadini che esercitavano attività non manuali. Con questo sistema i consiglieri venivano scelti in ordine di anzianità, tra i primi di ciascuna classe per comporre un consiglio 6 membri. Secondo un sistema di rotazione, alla fine di ogni anno il primo dei due consiglieri di ciascuna classe decadeva dall’incarico per essere sostituito dal secondo, a rimpiazzare il quale in questo ruolo si attingeva dalla lista degli eleggibili in ordine di anzianità. Gli affari di rilievo riguardanti alienazioni, ipoteche, obbligazioni e le spese straordinarie venivano deliberate dal consiglio raddoppiato. Il primo consigliere della prima classe manteneva, in continuità con la tradizione spagnola, il nome di consigliere in capo, mentre si stabiliva per tutto il territorio del Regno la coincidenza dell’amministrativo con l’anno solare. La legge di riforma (Editto del 24 settembre 1771) prevedeva che la nomina degli amministratori e degli impiegati di ogni consiglio potesse diventare esecutiva solo dopo aver ricevuto l’approvazione del re. Secondo la maggior parte degli storici questa riforma ebbe l’effetto di limitare ulteriormente l’autonomia locale e di rendere il consiglio scarsamente rappresentativo degli interessi generali della comunità, consegnandolo al controllo di un gruppo ristretto di cittadini. Una condizione di indebolimento del potere locale aggravata dal fatto che negli anni precedenti il consiglio comunale di Iglesias aveva subito una riduzione della sua sfera decisionale a vantaggio del capitano di giustizia, ufficiale di nomina regia.

La riforma del 1836: il consiglio si divide in due. Sul modello degli Stati di Terraferma, seguendo una tendenza che doveva portare alla fusione dell’isola con il regno piemontese, si attuò una riforma dei consigli civici di tutta la Sardegna che riduceva le classi degli eleggibili da tre a due dalle quali dovevano selezionarsi complessivamente 16 consiglieri (9 dalla prima e 7 dalla seconda). I nobili e i cavalieri erano inquadrati nella prima classe, la borghesia, esclusi i lavoratori manuali, e gli ufficiali in congedo nella seconda. In generale per l’accesso alle cariche pubbliche valeva un criterio anagrafico- censitario: occorreva avere un età minima di 25 anni e un reddito che la legge definiva “onorevole”. Erano esclusi coloro che avevano pendenze giudiziarie col comune e non era ammessa la presenza nello stesso consiglio di membri legati da vincoli di parentela. Con questa legge i compiti dell’amministrazione civica vennero ripartiti tra due organi collegiali: il consiglio generale e il consiglio particolare. Il consiglio generale era composto da tutti gli eletti. Doveva riunirsi obbligatoriamente almeno quattro volte l’anno, e straordinariamente tutte le volte che veniva convocato dal consiglio particolare o dal commissario regio (delegato del viceré o funzionario del governo), alla presenza del quale si dovevano svolgere le sedute. Il consiglio generale era presieduto da un sindaco, esponente della prima classe, nominato dal commissario regio fra i membri più votati dallo stesso consiglio: durava in carica un anno. Il consiglio generale prendeva decisioni in merito all’amministrazione finanziaria della città, ai dipendenti comunali, al bilancio comunale, ai lavori pubblici; proponeva i nomi per la carica di sindaco e la lista dei membri del consiglio particolare; designava i consiglieri per i vari incarichi. Il consiglio particolare era composto da sei membri, nominati dal consiglio generale nel proprio seno: tre appartenenti alla prima classe, tre alla seconda. Durava in carica due anni al termine dei quali veniva sostituita la metà dei consiglieri, nel rispetto della proporzione stabilita nella rappresentanza delle classi. Il consiglio particolare si riuniva, in seduta ordinaria, una volta alla settimana e in seduta straordinaria su richiesta del sindaco. Al consiglio era affidata la gestione degli affari economici più importanti della città che si realizzava attraverso la predisposizione di un piano di incremento delle entrate e di spese straordinarie, non bilanciate, per le quali disponeva di un’autonomia massima di 50 lire sarde da sottoporre all’approvazione del consiglio generale. Nascevano inoltre nuovi organi collegiali, eletti in seno al consiglio particolare: il consiglio dei provveditori ereditava la competenza annonaria finalizzata alla sorveglianza degli alimenti e delle bevande e al controllo dei prezzi su cui gravava la tassa comunale; il consiglio degli edili predisponeva il piano d’ornato per il controllo delle costruzioni pubbliche (che entrava in vigore solo previa approvazione regia), concedeva le licenze edilizie per la costruzione, ristrutturazione o variazione dei fabbricati esistenti, provvedeva alla manutenzione delle strade, interveniva in caso di usurpazione di suolo pubblico; il consiglio dei ragionieri sorvegliava la contabilità e verificava mensilmente lo stato della cassa tenuta dal tesoriere, intervenendo in caso di contestazione o frode; il

padre degli orfani svolgeva l’antico compito di assistenza agli orfani. L’ordine pubblico che la legge affidava al vicario di polizia vennero invece affidate al capitano di giustizia che tradizionalmente svolgeva a Iglesias analoghe funzioni. Quest’ultima riforma ebbe vita breve e fu seguita, dopo qualche anno (1841), da un provvedimento che riduceva ulteriormente il corpo degli eleggibili riconducendolo ad un’unica classe. Nel 1848 infine, compiutasi la fusione perfetta con gli stati di terraferma, Iglesias, insieme a tutti i comuni sardi, fu interessata alla riforma che portò alla nascita del comune moderno, e che fatte salve alcune modifiche divenne il modello della legge comunale e provinciale del Regno d’Italia (Regio Editto 20 marzo 1865).

Il comune moderno

Mandato, funzioni, attività. Nel 1848, in seguito alla riforma amministrativa sancita col R.D. 07/10/1848, n. 295, nasce il comune moderno. L'importante riforma istituzionale trasformò profondamente la normativa vigente in materia di amministrazione locale: furono abolite le province e contestualmente furono istituiti i comuni con natura di enti morali, dotati di organi rappresentativi eleggibili e con capacità di possedere, contrarre, stare in giudizio e di potestà regolamentare. Ai nuovi enti spettava l’esercizio di funzioni da assolvere nell'interesse della collettività, utilizzando le risorse tratte dall'imposizione di tributi e dallo sfruttamento dei propri beni. Un successivo intervento di riforma della materia amministrativa fu realizzato con R.D. 23/10/1859, n. 3702, il quale suddivise il territorio del regno in province, circondari, mandamenti e comuni ma lasciò sostanzialmente invariata la configurazione del comune e le sue competenze, limitandosi a modificare la denominazione degli organi e la loro composizione: la giunta diventò l'organo esecutivo del comune e scomparve la figura del vicesindaco. In seguito all'unità d'Italia, il modello di comune definito con le riforme del 1848 e del 1859 venne esteso, senza sostanziali modifiche, con il R.D. 20/03/1865, n. 2248, a tutti i comuni del regno. L’ordinamento del 1865 definì alcuni capisaldi destinati a perdurare nel tempo, nei quali si ravvisa una certa incoerenza. Se da un lato si ha il riconoscimento dell’autonomia locale che si realizza attraverso il diritto di eleggere i consiglieri e la limitazione dell’assenso governativo sugli atti del comune, dall’altro si compiono scelte che si possono leggere come il tentativo di fare dei comuni i terminali dell’azione di governo, con l’inevitabile limitazione dell’autonomia locale. In questa direzione vanno scelte come l’imposizione ai comuni di spese obbligatorie delle quali non potevano in alcun modo determinare la gestione e l’orientamento; il rigido controllo degli atti affidata sostanzialmente al ministero dell’interno attraverso il prefetto; il duplice ruolo del sindaco, insieme rappresentante del potere locale e ufficiale del governo. Le varianti ed i perfezionamenti apportati con i TT.UU. del 1889, del 1906, del 1908 e del 1915 non cambiarono dunque la fisionomia dell'ordinamento comunale stabilita dalla legge del 1865 che in base a queste disposizioni era tenuto a svolgere una pluralità di funzioni suddivisibili sostanzialmente in due categorie: funzioni proprie e funzioni delegate dallo Stato. Compiti dei comuni erano: l’istruzione elementare, l’assistenza medica ai poveri, i lavori pubblici di interesse locale (cimiteri, palazzi, strade comunali, edilizia), l’approvvigionamento idrico, i servizi di polizia urbana e sanitaria, disciplina del commercio, la vigilanza sugli enti di carità e beneficenza che operavano nel territorio comunale. Accanto a queste attività, il comune era tenuto a svolgere funzioni statali che venivano decentrate a livello di enti locali per la capacità di questi ultimi di agire in modo più capillare e diretto sul territorio. Tra le funzioni delegate vi erano: i servizi dello stato civile, la tenuta e la revisione delle liste elettorali, la formazione delle liste dei giurati della Corte d’Assisi. Rientrano in quest’ultima categoria anche la fornitura e la manutenzione degli edifici scolastici per la scuola elementare e professionale e le spese per il relativo personale docente e non docente. Sostanziali modifiche dell'assetto istituzionale del comune si ebbero con le leggi del regime fascista: con la L. 04/02/1926, n. 237 si stabilì che nei comuni con più di 5.000 abitanti gli organi elettivi fossero sostituiti dalla figura del podestà e dalla ponsulta municipale (quest'ultima facoltativa), mentre il T.U. sulla legge comunale e provinciale promulgato con R.D. 03/03/1934, n. 383 armonizzò l'ordinamento degli enti locali con i nuovi organi. Solo dieci anni più tardi, dopo la caduta del fascismo, con R.D.L. 04/04/1944, n. 111 furono ripristinati quali organi di origine elettiva il sindaco, il consiglio comunale e la giunta municipale. Questi organismi, di nomina prefettizia, traghettarono le istituzioni comunali sino al 1946 quando, con legge del 7 gennaio, fu disposta la ricostituzione degli organi elettivi con l'introduzione di alcune modificazioni nel sistema di elezione dei consiglieri, mentre per quanto riguardava le attribuzioni e il funzionamento venne richiamato il T.U. del 1915. Con il T.U. del 1951 e successive modificazioni fu definito il sistema di elezione del sindaco e dei consiglieri. La L. 08/06/1990, n. 142 definisce il comune come ente che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità, esercita funzioni proprie riguardanti la popolazione e il territorio comunale (servizi sociali, assetto del territorio, sviluppo economico), esercita le funzioni delegate dallo stato e dalla regione (servizi elettorali, anagrafe, statistica, stato civili, leva militare, sanità e igiene pubblica, assistenza e beneficenza, polizia urbana e rurale, istruzione pubblica, agricoltura, industria e commercio, sicurezza pubblica, ecc.), ed è dotato di autonomia, oltre che finanziaria anche statutaria.

Struttura amministrativa. La riforma del 1848 stabiliva che il comune, quale ente autonomo, si doveva amministrare attraverso il consiglio comunale ed il consiglio delegato (trasformatosi in giunta municipale con il R.D. 23/10/1859) e metteva a capo dell'amministrazione comunale il sindaco. In caso di scioglimento del consiglio o di "inopinata mancanza" dello stesso, veniva chiamato ad amministrare il comune un delegato straordinario nominato dal re. In via eccezionale e provvisoria, per negligenza od omissione da parte degli organi ordinari, si inviava un commissario, nominato dall'autorità governativa, per il disbrigo degli affari urgenti.

Il consiglio comunale rappresentava il supremo organo deliberativo, eletto dagli abitanti del comune che la legge ammetteva all'esercizio del voto tra la classe degli eleggibili. I consiglieri si rinnovavano, nei primi quattro anni, per un quinto dei membri tramite sorteggio. In seguito il rinnovo avveniva per anzianità. I consiglieri erano sempre rieleggibili. Il consiglio comunale si radunava in sessione ordinaria due volte l'anno: nella sessione primaverile di aprile o maggio e nella sessione autunnale di ottobre o novembre. Riunioni straordinarie del consiglio comunale potevano essere richieste all'intendente generale, da un terzo dei consiglieri, oppure, in casi di necessità e urgenza, potevano essere indette direttamente dallo stesso intendente generale. Durante la sessione d'autunno, il consiglio comunale eleggeva i membri del consiglio delegato (poi giunta municipale) e deliberava il bilancio del comune, mentre nella sessione primaverile esaminava e approvava il conto dell'esercizio precedente; sempre nella stessa sessione si aggiornavano le liste elettorali. Deliberazioni che avevano come oggetto gli stipendi, indennità, salari, nomina, sospensione e licenziamento del personale dipendente potevano essere adottate in entrambe le sedute. Il consiglio inoltre deliberava in merito alla gestione del patrimonio comunale, sulle imposte e la loro applicazione. Tra le attribuzioni principali del consiglio vi era quella di deliberare sul concorso del comune nell'esecuzione di opere pubbliche e nella realizzazione di quelle opere per legge obbligatorie. Il consiglio comunale, in prima seduta, non poteva deliberare se non era presente la metà dei consiglieri; in seconda seduta le deliberazioni venivano considerate valide qualunque fosse il numero degli intervenuti.

La giunta municipale, subentrata nel 1859 al consiglio delegato che aveva solo funzioni consultive, era l'organo esecutivo del comune il quale veniva eletto in seno al consiglio a maggioranza assoluta di voti; si rinnovava ogni anno e i membri uscenti erano rieleggibili al termine dell'anno. Alla giunta municipale spettava il compito di formare i progetti di bilancio e i regolamenti che dovevano essere sottoposti all'approvazione del consiglio comunale; coadiuvava il sindaco nella formazione del conto, deliberava sulle spese impreviste, preparava i ruoli delle tasse e degli oneri comunali. La giunta, inoltre, concludeva le locazioni e le conduzioni, i contratti e i deliberati di massima del consiglio, provvedeva alla formazione delle liste elettorali e partecipava alle operazioni della leva. Infine, rappresentava il comune nelle funzioni solenni.

Il sindaco definito dalla riforma del 1865 non era elettivo ma veniva nomina dal re, che lo sceglieva tra i consiglieri comunali. L’elettività del sindaco, introdotta nel 1888 solo per i comuni capoluogo di provincia o con più di 10.000 abitanti, verrà estesa a tutti i comuni del regno solo nel 1896. Al sindaco veniva riconosciuto il duplice ruolo di capo dell'amministrazione comunale e di ufficiale di governo. Una condizione, questa, che ne faceva una sorta di figura bifronte: da un lato il rappresentante della comunità locale, dall’altro l’anello terminale nella catena di trasmissione del potere centrale. Sotto il primo aspetto doveva presiedere le riunioni del consiglio comunale e del consiglio delegato (poi giunta municipale) che convocava con avviso scritto. Aveva il compito di custodire il sigillo, provvedere al regolare andamento dei servizi comunali, alla tenuta del protocollo, dei registri e dell'archivio. Al sindaco spettava inoltre di rappresentare il comune in giudizio, di assistere agli incanti, di promuovere e far eseguire le deliberazioni comunali e i regolamenti di polizia urbana. Alla fine dell'anno rendeva conto della sua gestione al consiglio comunale. Nel ruolo di ufficiale di governo il sindaco aveva compiti di vigilanza sulla morale pubblica e di garanzia dell'ordine pubblico, rispetto alla quale era tenuto a informare tempestivamente le autorità superiori in merito a eventi che potevano turbarlo. Tutelava inoltre gli interessi dei minori e il loro patrimonio. Il sindaco provvedeva al censimento della popolazione e ad altri rilevamenti statistici, nonché alla regolare tenuta dei registri di nascita, matrimonio e morte; partecipava alla formazione dei ruoli per le somministrazioni militari curando anche l'esecuzione degli stessi in caso di passaggio di truppe. Quale ufficiale di governo, spettava, inoltre, al sindaco la pubblicazione delle leggi, dei manifesti e degli avvisi al pubblico. In caso di assenza o impedimento svolgeva le funzioni di sindaco, fino al 1859, un vicesindaco; in seguito tale ruolo fu affidato al consigliere più anziano cui il sindaco poteva delegare una parte delle sue attribuzioni.

Gli organi istituzionali, nello svolgimento della propria attività erano affiancati dagli organi burocratici (segretario comunale e il complesso dei dipendenti).

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